: // “Culo alto ci fo un salto”, è tutta una questione di chiappa.

Era il lontano 1993 quando il regale derrière della Charlize Theron ci ondeggiava davanti agli occhi sul finale di un celebre spot: la seduzione di un bel par di chiappe a tutto schermo, quell’intercedere villano e sprezzante, quel filino di stoffa galeotto che si impigliava alla seggiola e lasciava intravedere sempre più cospicui lembi di pelle mentre la suddetta gnocca si defilava con passo deciso. Lè: Martini, un bel bollo a coprire le pudenda per una chiusura delicata e tutti a letto contenti. A quasi vent’anni di distanza, il reparto marketing di un’altra azienda decide di proporre un culo come fulcro della sua campagna: la Toyota adotta una strategia innovativa e brillante per il riposizionamento di una sua vettura, la Auris. Gli anni passano, le rotondità perfette della Charlize sono demodé e la bellezza androgina dei culi secchi è un trend che va tenuto in considerazione. Ed ecco che una chiappetta rachitica si impossessa dello schermo fin dalla prima scena, fasciata in un’avvolgente mutanda rossa, e si mostra giovane e maliziosa agli occhi di uno spettatore divertito. Sarà la solita figa ammiccante che sale sull’automobile riproponendo il canonico cliché? Sarà la solita biondina irriverente che seduce l’ipotetico acquirente con i suoi occhietti vispi? No, stavolta il reparto creativo ci stupisce e ci delizia con un’intrigante sorpresa…

Adesso, a parte l’estetica più o meno condivisibile della chiappa secca, mi pare più meritevole e doveroso riflettere su un’altra questione. Sì, perché io sono contentissima che modelli come Andrej Pejic e Stav Strashko facciano soldi a palate giocando sul confine nebuloso della sessualità, saranno uomini o donne, avranno le tette o le palle, giocheranno in una squadra o nell’altra, ma qui ciò che più perplime è il sottile messaggio subliminale.

TOYOTA AURIS: UNA BELLA INCULATA.

E tu, ce lo faresti un salto?


: // la dolce vita

Mi son svegliata brutta, trascinata fuori dal letto con certa apatia. Una pesantezza localizzabile all’altezza della nocca destra della caviglia sinistra. Lavatrice. Non sono bipolare, depressa, maniaco-compulsiva, isterica. Semplice, lavatrice. Che quando centrifughi, consumi un sacco.

Barista, da bravo, me lo macchi. Ti dice che da te non se l’aspettava. Che tu eri diversa e ti presentavi con la faccia floscia ogni mattino, alle dieci, e che spingevi foglie di rucola in silenzio per pranzo, sfogliando un libro. Che la sera, in Capannina tanta sfrontatezza c’è, ma così, al bancone di sala borsa, proprio non credeva..

Barista, oggi l’ironia no. C’ho la caviglia gonfia, il cestino della bici piena di Poretti succhiate da non so quale studente di triennale o pakistano che sia, che ami fare bisboccia nei pressi del palo a cui da mesi lego la bici e … no non mi faccia ironia stamani. Venga, macchi, guardi, lo bevo così. Ciao

Ma Valerio chiama e racconta. Alessia segnala su faccialibro. Dicono che oggi c’è roba da farmi stare bene, da farmi scrivere cose da Amazzone coi coglioni. Che oggi ci sono pubblicità che mi apsettano, che devo scrivere.

Allora navigo il web e faccio il mio dovere da frequentatore di pubblicità, con la verve dell’ultimo dei Moicani a cui hanno fatto fuori proprio tutto, anche il tabacco Golden Virginia. Che vedere Siena deserta sovrascrive una traccia vuota sul tuo pezzo preferito. Con la musica che echeggia, ancora, a bassa voce dalla consolle di Stefano. Con le palme moscie solleticate da un vento di un marzo che ormai è aprile che non è più estate ed è tornato autunno. Contro un cielo grigio, e le chiome rosse della donna che ha segnato anni della tua vita e che è la ancora, con una grazia invidiabile. Nel suo trench caki traspira boulevard e vecchi vinili di Piaf. E’ il solo sguardo che ha guardato tutto questo con te. Ricordi che era il secondo anno del XXI secolo e che credevi nell’antropologia. Che i tuoi non sapevano neanche cosa fosse, che per questo ti piaceva ancora più. Ricordi che incontrasti i suoi baffi che ti spiegarono che la comunicazione non è una merendina, che ci si fanno cose potenti che ci sono strumenti affilati come armi e che puoi essere arrotino fin alla fine dei tuoi anni e squamare arte come fosse branzino. La rossa abitava le tue stanze e mangiava i tuoi craker senza latte e senza uovo nell’adolescenziale urgenza di essere belle e ossa. Ricordi notti d’inverno al tavolo appiccicoso di un mezzanino, via Roma. Civico dimenticato. Non dimentichi la rossa e la livornese, che ti attendono in trionfo, sotto la Lupa, con una tazza di ceramica colma di caffé. Vedi il fumo aggredire la brina dicembrina e ruzzolate per ripide strade a rispondere di testi letti in una notte; esami che correvi all’alba a farti aprire la segreteria per iscriverle tutte. Loro intanto, a preparare moke.

Nascondi il naso tra i capelli che ora porti corti e obliqui. Cerchi tra la folla i volti di allora e li vedi tutti, con pance pronunciate, nastri bianchi tra le chiome, barbe incolte. Scorgi Giulia, in movimento come sempre, fuori fuoco. Scavalca zolle, inciampa nelle miu miu rettile e senape. Gli occhi instabili trovano appiglio nei bagliori miele  della cornice swaroski. Riconosci gli occhiali delle grandi occasioni. Vedi Francesco, con le coste di vellute, le stesse del febbraio nevoso. Trovi secondi di pace nel collo modigliani di Lucia che ha la pelle bianca di una bellezza sempre più malata. Le grandi finestre restano vuote e ti pare giusto perché da lì guardavi Marco, che eri una ragazzina quanto ti chiedeva compresse di Buscofan e un giorno entrasti in farmacia solo per averle in borsa, nel caso te le chiedesse ancora.Per non dirgli un altro no.

Sono sei anni che non sali, non siedi di fronte allo schermo. Cerchi il ciglio aggrottato di Edoardo. Il velluto sa di marcio e lui non esce dalle quinte. Resta la luce, diffusa, miope, appiccicosa. Allora scappi via. E forse non ci torni più.

Dire addio ai propri maestri. Se non è tra i comandamenti, dite a quello lassù di fare una rettifica.


: // e se va bene a me, buon San Valentino a tutti.

Prima le tempeste di ghiaccio. Poi le tempeste di cuori.

Eccoci arrivati allo splendido giorno che orde di famelici fidanzatini aspettavano con ansia: oggi è San Valentino. E insieme agli eserciti di innamorati che si affrettano a regalare cuori, soli e amori, si muovono con forza opposta e contraria le masse di cinici stronzi che non esitano a dichiarare “il primo che mi fa gli auguri lo strozzo”, “a me San Valentino ha sempre fatto cagare”, “oggi faccio una strage”, ecc. ecc. Ah, sono ore che mi diverto su Twitter, avrei delle citazioni bellissime ma non ho voglia. No, non ho voglia. Perché anche a me, che sono il palo nel culo per eccellenza, mi viene spontaneo osservarvi con sdegno ed esclamare: siete delle persone tristi. Inutile sputare alacri sentenze, fatevene una ragione: ci state facendo uno sformato di spinaci di dimensioni bibliche.

Lo vorreste anche voi il fidanzatino che vi porta a cena fuori a mangiare una pizza a forma di cuore, eh?

La vorreste anche voi la dolce metà ad aspettarvi in guêpière per dedicarsi a lunghe fellatio, eh?

Per quest’anno, rassegnatevi, vi tocca attaccarvi al cosidetto tram. V’è andata male. Perché tanto lo so che quelle poche persone sane di testa rimaste su questo pianeta, nemmeno si ricordano che caspiterina di ricorrenza è il 14 febbraio, figurarsi mettersi a vomitare ovvietà. Per tutte le altre il giudizio è semplice: o siete innamorati o siete delle larve senza sentimento, come la sottoscritta. Io però lo ammetto: oggi covo invidia nei confronti di chiunque sia innamorato, non di se stesso. Chiunque abbia sentito un piccolo battito d’ali di chiurlo nel suo gelido petto. Perché me ne frego della pizza a cuore (pur se una ricca fellatio la farei volentieri) ma almeno un bacio. E non sto parlando di quelli Perugina che, a volerla dire tutta, io preferisco i Ferrero Rocher. Almeno un abbraccio. E non sto pensando a parenti e amici, tantomeno ai biscotti della Mulino Bianco. Ma che dico? Baci, abbracci… Almeno un’ora d’amore. Anzi ore e ore di sesso famelico e torbido.

Perché sì, voi che potete, vi prego: festeggiate con della sana attività fisica stanotte, che l’Italia è congelata, in crisi, vecchia e stanca. E stasera c’è pure Sanremo…


: // neve.

“Neve!” gridano i bambini festosi, i cuori colmi di gioia illibata. Eccoli là, per le strade, con i cappottini colorati a lanciarsi addosso palle su palle. Sorridenti, beati, felici. Adesso alzate la testa e volgete lo sguardo in alto, verso una qualunque finestra appannata di una stanza tetra. Mettete bene a fuoco, aguzzate la vista. Dietro quel vetro lercio, a tirare saporite scariche di bestemmie, c’è la mia amabile figura. “Neve. Molto bene.”

Svetlana prese due buste Esselunga, se le infilò ai piedi e calzò le New Balance di tela. Poi discese nel vialetto condominiale e affondò nella melma bianca fino alla coscia. Temeraria, si fece spazio nella fredda coltre e raggiunse la fidata Betsy, agile mezzo di locomozione della nostra amata. Svetlana spalò, rastrellò, accumulò. Liberò l’amica di sventure, la accese. Ella dette subito prova di grande vigore sputando aria calda dalle bocchette in soli 2 minuti e trenta secondi. La carissima Betsy. “Molto bene mia adorata. Adesso il viale, e poi potremo finalmente fuggire.” Ignara delle avversità che il crudele destino le avrebbe presto proposto, Svetlana si armò di una forza inaudita e iniziò a sbadilare tonnelate di nevaccia astiosa.

“Mi scusi, signorina, ma dove pensa di buttarla?”

“Pensavo di fare dei piccoli mucchietti, al lato dei giardini.”

“Eh no, sulle mie ortensie?”

“Le sue ortensie sono sepolte da un metro di neve, presumo che possiamo dichiararne la morte.”

“No, no, a lato del mio giardino no.”

“Or bene buon uomo, qualora io volessi liberare il vialetto, affare che dovrebbe starle a cuore visto che presto verrà preso a violente ramazzate e l’ambulanza dovrà poterla raggiungere, come crede che dovrei procedere?”

“Ah non mi interessa, la lasci dov’è. Tanto domani nevicherà ancora.”

Ecco, domani è un altro giorno, pensava la nota Rossella. E noi continueremo a rimanere intrappolati sotto il manto putrido che questo clima inopportuno ci ha donato. Perché la neve va lasciata dov’è. Perché “Bologna con la neve è così bella!”. Col cazzo. Bologna con la neve fa cagare, non è adatta, è impreparata. Ce n’è troppa, causa attacchi di panico, ansie immotivate, svuotamento repentino dello scaffale del pane alla Coop. E dove la mettiamo, poi? Perché smetterà di cadere, un giorno forse lontano, e quando lo farà diventerà marrone e laida e si affloscerà sotto i portici. E io scivolerò e mi romperò un femore e la mia ira si propagherà e moriremo tutti. Tutti. Perché i miei vicini di casa sono diventati comparse cretine di The day after tomorrow. La paranoia diffusa. Tempeste perfette, ghiacci siberiani. Distruzione e disagio. Chiudiamoci in casa. Datemi una pala, fatemi commettere un omicidio, vi prego. Fatemi spalare via questo manto fetente. Fatemi liberare la vita da quest’orrido bianco. Bianco, bianco ovunque. Bianco: che colore insipido.

Non mi basta pensare che quando sarò vecchia potrò dire di aver assistito a un evento storico. “Nonna, raccontaci!”, “Ah, quel tremendo febbraio 2012…”. No, me ne fotto.

Venite a salvare me e la Betsy con un elicottero. Si offre ricca ricompensa.


: // come un c.azzo in cu.lo

BELFAGOR. RIVISTA DI VARIA UMANITA’

A: Signorina, la prego non si offenda

B: Guardi, mi creda, non peggiori la sua situazione

A: Mi scusi, era solo un’osservazione che non ruscivo a trattenere

B: Dice? e se io le rispondessi che non so trattenere le mani?

A: Ma ho solo detto che lei è fastidiosa come un cazzo in culo, non ho aggiunto altro

B: lei è eterosessuale?


: // Yama.MAI

Importante link.

Prisca e Svetlana si riunirono un giorno fondando Comunicazzone. Se notate, ci sono dei punti ad minchiam che spezzano il nome di questo frivolo luogo. Sono i punti di una citazione affatto colta. Chi può cogliere colga, se può.

Quanto ci stanno sul buzzo le donne che odiano il corpo bello delle altre donne. Quanto ci stanno sul cazzo- che per giunta non abbiamo ma in quanto non-femministe in fondo invidiamo – le donne che si scandalizzano per la scorrettezza delle pubblicità d’intimo.

Se vedo due lunghe gambe, per strada, io soffro. Infinitamente, soffro,  per non possederne di simili. Perché per prendere le lenzuola dal piano alto del mio armadio io uso un panchetto SKRUFF, dell’Ikea. Perché gli stivali mi arrivano al ginocchio, perché ho un adduttore ipersviluppato che rende le mie cosce assai più piene e forti di quanto ci si aspetti per una signorina elegante come il mio animo e la mia indole suggeriscono. Ma sono un essere intelligente e lascerò quelle gambe in circolo soffocando i miei intimi desideri di spezzarle con una chiave del 15. Pare infatti che sia illegale.

Non sono una modella d’intimo riconosciuta, ma mostro volentieri il culo al mio uomo. Per il resto ho un altro mestiere. Cioè, non ho un mestiere ma questi sono dettagli.

Sono politicamente scorretta e non ho alcuna voglia di sorbirmi due tette calanti per i 30 secondi in cui passa la pubblicità di un reggiseno in tv. O forse ne ho voglia, ma non mi aspetto un simile spettacolo da Yamamai. E’ un fatto di coerenza con l’identità visiva di un brand. Di tette calanti ne vedo dall’alba dei miei anni. Mia nonna aveva le tette spolpate dalla vecchiaia eppure, ogni volta che le facevo il bagno i suoi capezzoli si stagliavano sulla schiuma come la vetta più dolce che io abbia mai visto. Mia nonna aveva un solo capezzolo. L’altro le fu reciso da mia madre in età da latte. La perfida succhiò così tanto da ferirle a morte la procacità.

Le tette di mia madre sono pallide e inspiegabilmente belle, rotonde nonostante i settanta. Solcate da rughe di espressione e macchie del sole dei ’60 che non prevedeva protezioni. Quando la mattina prepara il latte con la vestaglia leggera puoi vederle inturgidirsi: mio padre non ha mai smesso di incantarsi, e distoglie lo sguardo dalle previsioni del tempo. Io le ho succhiate e mi pare che fossero ok anche da un punto di vista meramente nutrizionale.

Le (s)conferme di un corpo, di cui sono vittima, non le cerco nella pubblicità di un reggiseno. Non mi affido al direttore marketing della Yamamai. Per altro, signore, era una griffe da baldracche fin a un paio di anni fa. E’ come scandalizzarsi per il ketchup in un Big Mac. Signore.

Ma ciò che veramente mi interessa sottolineare è:

IL GIURI’ DELLA PUBBLICITA’ HA UNA FAMIGLIA. VUOLE USCIRE PRESTO DA LAVORO. VUOLE ANDARE A FARSI UN PAR DI APERITIVI IN SETTIMANA. VUOLE GIOCARE CON LE TETTE DELLA SUA AMATA.

Non chiamatelo per ogni cazzata. Non invocatelo se la Ferrari si è rifatta una natica. Io dell’estetica Yamamai me ne fotto quanto me ne fotto di una copertina di Chi?. Io mi masturbo guardando i porno con le milf con la cellulite perché veder sballare quei grossi culi mi mette di buon umore, un umore ben disposto al piacere. Io, il culo secco della Ferrari non lo sbatterei. Ma dobbiamo ucciderla? Forse a qualcuno piace secco come a qualcuno piace caldo. La soluzione non è inchiodarle le zampette palmate, smaltate e farla ingrassare come un’oca della Camargue, tantomeno chiamare il Giurì.  Suvvia, siate ragionevoli. Non ingelositevi per un par di mele sode.

La nuova pubblicità Yamamai ha una sola colpa. Fa cagare. Lo sguardo guercio e non ammaliante della Ferrari è grottesco. La piscina spaccona è orribile perfino per il defunto Versace che da buona checca adorava le piscine spaccone con le greche dorate. E’ orribile perfino il reggiseno nero in calcestruzzo e pizzo. La microfibra è becera.

I movimenti della macchina da presa sono beceri come becero è il colore delle lenzuola. Scattoso il montaggio. Poco audace l’uso dello sfumato per non mostrare l’autenticità di un culetto all’alba dei cinquant’anni. Non mi basta lo zoom sulla lonzetta bastarda che solca la bella schiena di Isabella. Trovo oscena la sfocatura sulla sua pancia che censura l’ombelico così da farla apparire aliena, senza cordone, senza viscere. Sinceramente, Giovanna, non mi sento offesa come donna se per veicolare bellezza naturale si sceglie la Ferrari. Sono offesa perché la Yamamai non investe bene i suoi soldi e fa una pubblicità orribile. Sono offesa perché con Edoardo alla regia, me medesima allo script, le attenzioni di Tarantino per i dettagli cellulitici e un par di amiche per protagoniste avremmo filmato una scena saffica dalla pelle  naturale e dall’efficacia irriverente.

Sono offesa dalla poca lungimiranza del reparto marketing di Yamamai. Sono offesa dalla laideur. E soprattutto quella canzone ci sta come un pippero* a merenda.

*rimando a Elio e la coro delle donne bulgare per commiatarci su note più (con)geniali

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N.D.R Tuttavia tengo a precisare che la Isabella Ferrari è una buona scelta: pare una gran maiala.

N.D.R2 A cosa porta il femminismo? a uccidere il modello, incollato allo sfondo come un comodino Le Favlier. Giurì, puoi chiedere d’indugiare sul di lui posteriore? Ora godetene tutti e andate  in pace.


:// santa o puttana?

E venne il settembre agognato. Quello della karmica rinascita meditata nei dettagli ai tempi delle pedalate frenetiche di una grigia Milano.

Ho incontrato una ragazza che colora fumetti. Per mestiere. Chi colora i sogni?

E’ il settembre atteso, sognato, pregato, amato. E’ il settembre dei soffitti affrescati delle umide biblioteche bolognesi. Pedalo calma, attraverso portici e investo prosperose signore di ritorno dal mercato delle erbe. Ho gli occhi pieni, gonfi di poesia al dolce rimbombo delle suole sul lastricato dei portici. Tutto fa eco. Risuona, come la pasta stesa, alla domenica, su cui mani esperte adagiano impasti di zucca e ricotta. Il vino qui è sempre rosso e i mendicanti hanno un nome. La Contessa mena con la sua borsetta sgualcita di puttana d’un tempo, nella via del Pratello, del bordello. La Contessa non ha smesso i suoi panni, nonostante il fresco della sera. Il vestito è aperto sul fianco e la sua pancia di vecchia è ancora più pasciuta. Ma il rossetto, il rossetto è quello rosso e il taglio, corto, affettato della coquette parigina incornicia rughe profonde come canyon. Guaisce. Scivola via, tra i colonnati senza meta senza mestiere, senza malizia, senza età.

Il risveglio, il caffé di una nuova moka ha l’amaro di tutte le moke del mondo. Il fondo, s’incolla alla tazza che non basterà raschiare.

Il basilico. Uno nuovo, su un nuovo davanzale. Il profumo, è lo stesso.

Tossisco e abbandono il mentore voluto. E’ bastata un’offerta per girare i tacchi e correre nel senso inverso. Dalla nemica di un tempo che con un messianico sorriso mi da il benvenuto.

Guardami, scacchista, napoleonica, meschina.   Guardami, né santa né puttana. Una povera stronza senza fede. Con una coscienza da riconquistare.


: // le errate semantiche. Ovvero: la vendetta del porco e poeta (Prisca docet)

Quando ero una giovane piena di speranze e iniziative e i miei sogni non si erano ancora completamente spappolati su un muro di cinico realismo, disegnavo cuori e piccioni sul mio diario. E accanto ai cuori e sopra ai piccioni c’era l’uomo della mia vita. Dato che ero appunto giovane, dunque cretina, costui era la rivisitazione moderna del principe azzurro: ricco manager, proprietario terriero o imprenditore di imprecisata natura (come se avessi potuto capirci qualcosa di profili professionali. Sciocca.) a cavallo di una Bmw Z3 decappottabile blu elettrico (come se avessi potuto capirci qualcosa di automobili. Parecchio sciocca.). Ecco. L’aspirazione massima? Un fighetto di merda. Il manzo per eccellenza. Al più, un metrosexual in decomposizione.

Passarono gli anni. E fu sera e fu mattina.

Quando ero una giovane piena di speranze e iniziative, ma i miei sogni si erano già abbondantemente spappolati (tutti), intrapresi una carriera lavorativa ambita e onorevole, almeno per cercare di capire non dico cosa sognare, ma come cazzo guadagnarsi il pane in un futuro relativamente prossimo. La stagista. E razzolavo caffè e contavo le pagine che avevo fotocopiato. E facevo ottime anteprime di stampa, e spolveravo con dovizia soprammobili e lampade. E, visto che tutti mi volevano bene, avevo anche raggiunto una scrivania importante: quella davanti alla porta del cesso. Ecco: la stagista guardiana dei cessi. Il colloquio (dai, chiamiamolo così che fa figo) me lo fece l’incarnazione del principe azzurro di cui sopra: quarantenne (oddio, forse ne aveva meno, ma all’epoca ero giovane…) brizzolato dal sorriso perfetto. Un nostrano George Clooney. E me lo fece nel suo ufficio presidenziale dietro una laccata scrivania cosparsa di oggetti inutili ma molto fàscion, perfettamente sistemati a incorniciare la sua affascinante presenza. Dentro di me pensai “e che cazzo, già che lavorerò gratis che almeno mi dia una ripassata su questa cazzo di scrivania”. Come se avessi potuto capirci qualcosa di ripassate. O di scrivanie. Sciocca, povera sciocca. Poi, un soleggiato mattino, mi accorsi che oltre al manager di ‘sto cazzo, un’altra interessante figura aleggiava per i corridoi di quell’ufficio pidocchioso. Ci misi due mesi per capire quali fossero le sue mansioni, anche perché non parlava. Soprattutto (se non soltanto) non parlava a me, con me, di me. E la mia trasparenza pareva incomprensibilmente aumentare allo scorciarsi dell’orlo delle mie sottane. Nell’intricato intestino delle mie cervella l’area del manzo iniziava a perdere punti a favore di un più interessante quadrante: il porco e poeta. Le speranze e le curiosità si persero con il finire del periodo di schiavismo. Ma dentro di me capii che qualcosa nei miei ideali sentimentali andava rivisto.

Passarono gli anni. E fu sera e fu mattina.

Buonasera miei amati. Eccomi a voi: cinica, insensibile, isterica e maledettamente astiosa. Sappiate che oggi che sono vecchia e furba, posso fieramente dichiarare di aver redento le mie inutili e adolescenziali aspettative di accoppiamento. Mai sopravvalutare una Bmw, un capello brizzolato, una professione che sfoggi da qualche parte il termine “manager”, “entrepreneur” o “owner”. No, la soluzione è nel reparto creativo, nelle porte in fondo, in quelle stanze che socialmente si pensano abitate da ricchioni o anime mistiche sessualmente incapaci. Mai semantica fu più errata. Perché il problema sta proprio nel concetto culturalmente inculcato nelle nostre teste bacate fin dalle elementari: il bulletto intrallazzone è il figo, il bambino incompreso dalle spiccate doti artistiche è lo sfigato. E invece no: basta manzi. Io desidero il porco e poeta. Prisca mi pento e mi dolgo dei miei peccati e mi ravvedo con questa amabile dichiarazione che sono certa apprezzerai: adesso che sono vecchia e lungimirante sogno di farmi sbattere sul tavolo della sala riunioni dall’art director.


: // meriggiare pallido e assorto presso un rovente muro d’orto (Prisca mi manchi)

Il ritorno nei luoghi dell’infanzia.

La dolce Svetlana, indossati i panni di zia Xanax, accompagna il nipote e la madre al parco del piccolo paese natìo. Giunta tra i cipressi del viale erboso viene accolta da grida ridenti, corse spensierate, manifestazioni di gioia e felice vivacità. E finalmente anche per l’algida anima sofferente della nostra acida eroina sbocciano pace, amore incondizionato, pensieri lieti.

Perché non mi sono portata dietro il DDT? Perché? Perché Perché?

La madre, infingarda, siede a spettegolare con le vecchie becere di quartiere. La vostra amata, irretita con l’inganno, bada al pupo. Incontro nefasto numero 1: il bulletto di 4 anni. Mi si approccia con, nell’ordine, “spostati!”, “vai via brutta”, “levati”, alternando i suoi pensierini gentili a pedate negli stinchi e spinte. Odio chi mi sfiora, soprattutto se a farlo è un nano con le mani sudicie. Il suo corpo, con grande probabilità, non verrà mai ritrovato. Uno stormo di gazze fameliche ne sta alacremente divorando i resti dalla punta del cipresso su cui il mio Guess 12,5 l’ha fatto atterrare.

Incontro nefasto numero 2: lontano parente di imprecisata conoscente. “Ma lei è Svetlana? La piccola Svetlana? Saranno dieci anni che non la vedo.” Io odio le persone che si rivolgono palesemente a te, magari fissandoti anche negli occhi, e parlano come se fossi assente, incapace di rispondere, affetta da mutismo, demente. Prendo la palla al balzo per un temibile dardo infuocato. “Eh… Il tempo passa così lesto: un giorno sei bambino a giocare a pallone e il giorno dopo paralitico con la bava alla bocca a farti spingere sulla carrozzella dalla tua progenie ultrasettantenne.” Io sono il demonio, e tu adesso soccomberai scosso dalla mia perfidia. “Ma non eri bionda?” Muori...

Io e mio nipote ci siamo ritagliati un angolino di pace sulla pista da ballo dismessa, raccogliendo le cannucce colorate dai bicchieri di mojito abbandonati la sera prima. Per la Festa dei donatori di sangue. Molto Twilight.

Asociali, in disparte, soli e irrimediabilmente felici. Io e lui, lui e io. Mi passa una cannuccia arancione e mi guarda sereno. In quel preciso istante ho capito che tra qualche anno anche lui si ritroverà a scrivere blog di cattivo gusto sputando sentenze a destra e a manca.

E mi sono sentita fiera.

Fragorose iastime.


: // se c’è sciopero, forse il 13 non passa.

Siamo nati senza ideali e senza mani, convinti della potenza di un contratto indeterminato e della pochezza di un sogno. Ubriacati dai mojito e stonati dalle canne. In preda a crisi, ansie, attacchi di panico, incertezze e dubbi. Pronti a desiderare una vita borghese, in una casa borghese, con una famiglia borghese e un cane borghese. Uno stipendio sicuro e un’altrettanto sicura infelicità in cima al monte degli obiettivi. Una donna a casa ad aspettare e una decina di mignotte fuori a farsi aprire le gambe. Un marito dolce e accondiscendente nel letto e una lunga serie di sfizi appena oltre il portone dei ricordi.

Dice che oggi c’è sciopero. Chissà se passa il 13.