: // un’estate al mare.

Gaudium tripudiumque, Svetlana torna a scaldare la sedia cittadina, unta di doposole e piena di aria salmastra nei polmoni. Giorni or sono, quand’anche l’inchiostro della mia penna sfidava il caldo nel tentativo di mantenere una liquidità minima, scrivevo:

“Mi schianto nell’acqua sperando di porre fine al disagio, ma scopro con pessimismo dilagante che la mia pelle si congela a -10° mentre i miei organi interni, il cervello soprattutto, continuano a ardere. I bambini mi schizzano, mi infastidiscono la vista, sorridono, mi corrono intorno inzuppandomi di sabbia. Vorrei catturare una tracina al balzo e usarla come buca-materassini, ma neanche la fauna m’è d’aiuto. Né una medusa, né uno squalo, né un’orca assassina. Persino la famosa pantera che si vocifera stia minacciosamente infestando le zone si fa grattare il pancino sul bagnasciuga dalle manine paffute dei mostriciattoli urlanti. La situazione è sfavorevole. Fortuna vuole che in questi casi l’antropologo che è in me abbia la meglio. Placata, osservo costumi uomo Sweet Years bianco latte (accidenti a Dolce&Gabbana e alle loro idee pubblicitarie insane) o Speedo giallo canarino. Rigorosa mutanda. Giovani mignottelle tinte di rossetti color fuoco agitare i derrière scintillanti Swarovski. Unica gioia, una sentimentalissima conversazione tra due ardimentosi che si sono amati per presumo 50 anni almeno:

lui – “A sta’ al sole a questo modo fa male. Poi te c’hai anche pochi capelli.”

lei – “E se c’ho pochi capelli che c’ho a fare?”

lui – “Nulla, però ti fa male al capo. Ti dovresti mette’ il cappello.”

lei – “Eh, ce l’ho di là.”

lui – “Via, allora s’ha a andare?”

Invidia.”

Ricordo ancora quelle giornate soleggiate sulla riviera della Coca Cola con la cannuccia corta, nel rigoroso bicchiere di carta, tra manzi maremmani e giovani stelline smignottanti. A tenermi compagnia sulla linea dell’orizzonte la schiera delle isolette nostrane (di cui ho scordato il nome per evidenti carenze scolastiche) e il moro bagnino comunale (di cui ho scordato il nome per evidenti carenze sociali). Convinta che il clima potesse favorire il mio marmoreo umore, solevo frequentare la battigia succinta in allegri bikini (nero, con i teschi: un must). I bagnanti amici mi aggiornavano sugli eventi mondani (“L’hai vista la Ele quant’è bella?”, “Mah, non è mica tutta questa gran fica, a me mi garba parecchio di più lui”, “Ma ‘ndo so’? Ora vò a vederli anch’io”. Elena Santarelli e Bernardo Corradi, in vacanza con le suocere, n.d.a.). Il pacifico caldo torrido che sfiorava i 40 gradi mi impediva finalmente di sussurrare i miei melodiosi “moriremo tutti” e, giocosa, mi intrattenevo in partitelle a racchettine con l’uomo della mia vita nel tentativo di svilire il disagio afoso. Le settimane di esilio marittimo mi hanno reso un fioricino prezioso. Con alcune importanti note positive: raggiungimento di un color sabbia che annulla l’aria malata terminale canonica; allenamento del fegato a colpi di mojito in preparazione al gelido inverno; superamento della sociofobìa dilagante grazie a immersione in fitti lidi e Salitine trafficate; interruzione dell’astinenza sentimentale forzata e conseguente diminuzione dell’acidità uterina. Chissà se l’acceleramento del mio battito cardiaco causa altrui sesso possa aver irreversibilmente tappato la vena acida.

Chissà.

Ancora una volta l’estate è passata. Ancora una volta non posso far altro che sperare in un brusco calo delle temperature che ristabiliscano i miei climi preferiti. Massima: 18 gradi. Con gioia e amore per tutti. Tante care cose.

E fragorosi focchiu.


: // she got sunshine on a cloudy day

Una stanza tutta per sé. Virginia glielo aveva suggerito nei sotteranei di Via Roma, tra cunicoli di muffa e pagine mai lette. Si impose di ricordare. Della stanza. Ne avrebbe sempre avuta una. Lontano.

Gli anni portarono nuovi volti, nomi e perché. Cambiarono le certezze, le città, scarpe, quadri, uomini, amici, cessi e cuscini, e le stanze, tutto solo per sé. Una certezza come la gravità. Egoismi e filosofia di chi sposa la sottrazione e scrive in n-1.

Era l’alba di un agosto ritrovato così come ritrovate erano le strade della sua città. Non li aveva mai visti. I campi e poi i palazzi brutti della prima periferia. Le tangenziali squallide e i raccordi di una vita. Non li aveva mai traversati quando ancora tutto dorme. Alla guida della sola macchina che abbia mai posseduto, chiuse gli occhi e sentì il sole. Quelle ultime notti senza letto né definizione le si erano impresse sulla pelle come la puntura di mille zanzare.  Il fastidio di un piacere sottile, sospeso, protratto che penetra profondo senza bussare. Come un pugno di citrosodina sotto la lingua: amaro ma effervescente. Come tre, quattro, dodici o trentatré pugni chiusi sotto la stessa lingua. Ancora. Ancora.

Il serbatoio lamentava la fine della corsa. Tirò dritto.  Senza meta, vagabondava le vie del centro. Vuote. Tutto per sé. Un mese ancora e sarebbe tornata: alla città che l’aveva adottata, ai portici premurosi e ai rassicuranti saggi che la rapivano dalle infinite, insostenibili ore del giorno.

Quando vide un vecchio stringersi alla balaustra del ponte. Aspettava che il giorno iniziasse o aspettava la fine? Neanche l’ombra a tenergli compagnia. Sopravvissuto. Alle passioni che avevano animato i suoi giorni. Sopravvissuto a chi l’aveva amato senza condizioni. Alla pietra calda dei ponti della sua città. Al marmo gelido dei cimiteri. Alle nuvole degli infiniti agosto che aveva riconosciuto. Guardava innanzi, l’orizzonte scosso dall’acqua lercia del fiume, Firenze muta alle sue spalle.

-“buongiorno”

-“stamani c’è sole tra le nuvole”

-“ieri che c’era?”

-“sempre sole e sempre nuvole”

– “non riusciva a dormire?”

– “mi alzo presto per godermi la città. Io non me ne sono mai andato”

Divisero il silenzio e l’inattesa pace che l’aveva assalita nella città che aveva sempre negato. Per un pugno d’istanti, ancora.


: // percorsi esistenziali milano-siena-bologna

Buongiorno amabili abitanti del mondo virtuale. Fuori è una bella giornata di sole. E io me ne frego e rimango chiusa in casa. Rimango chiusa in casa e rifletto. Come molti di voi sapranno, sono una globetrotter: io e le linee Sena Milano-Siena-Bologna siamo ormai intime confidenti. Ecco, dopo avervi molto viaggiato, approfittando della comodità dei mezzi messi a disposizione dalla fortunatissima compagnia suddetta, mi chiedo perché io non abbia ancora dedicato loro un simpatico e dolce post. Un piccolo postino. Ordunque eccolo qui.

C’è una cosa che mi sono sempre chiesta delle indicazioni sulle uscite di emergenza raffigurate nei depliant della Neoplan Tourliner, gentilmente messi a disposizione sugli autobus for your safety: in caso di necessità, al punto A si indica il funzionamento delle maniglie per aprire i portelloni sui fianchi del mezzo; al punto B si localizzano i martelletti per rompere i vetri; al punto C si spiega come aprire le finestre sul tetto. E il punto D? Cosa mi vuole significare il punto D?

Apparentemente, che è possibile dormire nell’alloggiamento bagagli, inferenza rafforzata dalla tipica posizione supina, mani dietro la nuca e gamba leggermente piegata, assunta dall’omino rosso. Ma anche, se non soprattutto, che si deve prestare attenzione a non farsi tirare per la testa per uscire, perché il nostro tronco rischierebbe di spezzarsi a metà.

Questo dubbio mi assillerà a vita, presumo. Stanotte non dormirò.

Vi lascio con l’enigma ancestrale e con un prezioso consiglio: se mai doveste viaggiare con un meraviglioso autobus per più di un’ora, ricordatevi che i posti migliori sono il 27 e il 28, quelli dopo l’uscita secondaria, con tutto quell’interessante spazio libero di fronte. Comodissimi, peraltro, anche per chi soffre di mal d’auto: basta un colpo secco di reni, una veloce flessione del busto, ed ecco che si può raggiungere direttamente la tazza del cesso chimico con un’unica gittata. Solo per professionisti. E solo nel caso in cui qualcuno abbia lasciato la porta del suddetto cesso aperta. Dettagli.


: // seccai come una medusa sul bagnasciuga: per sdegno.

Lo impone un certo dovere di cronaca e un’impagabile acidità innata della sottoscritta. Riporto ciò che due giovani coppie, stesi i teli a un metro da me con altri 100 di spiaggia libera, hanno avuto la gentilezza di esporre: “la stufa a pellet è la svolta culturale di un popolo. Un calore da strappassi la pelle di dosso e poi non consumi una sega. Ce ne sono di strabelle incastonate che sembrano un caminetto oppure a forma di strumenti musicali. La stufa a pellet, ragazzi, è una cosa che dovevate considerare. Se potevo l’avrei messa.”

Ecco. Meno di trent’anni. Laccati e depilati gli uomini, abbronzatissime e con la french le donne. Amo la battigia.


: // le riflessioni marittime

Carissima Prisca,

fondamentalmente consapevole di essere una perfetta asociale, mi sono trasportata con pigrizia a Castiglione della Pescaia, patria di famigliole in vacanza e fighetti di merda. Trangugio con ampi sorsi il mio buon bicchiere di rosé, che si accinge ad essere accompagnato da un ottimo nasello. Anzi due. In questo mio delirio di solitudine marittima ripenso con un ghigno malefico a quanto ci siamo lasciate alle spalle e affiorano alla mente parole delicate come “antani” e “puppa”. “Fragorosi focchiu”. Quale insana ragione ci spinse ad affrontare la Città urlante? Mi vedo adesso, qui, pacifica come una cimice schiacciata e mi ripenso un tempo, là, isterica come una falena intorno a un lume. Ma chi cazzo ce l’ha fatto fa’? No, è importante. Perché, nasello a parte, questa aria di mare mi rischiara le cervella e cerco invano una motivazione plausibile. Accendo la tv e guardo l’ultima puntata de “L’onore e il rispetto – parte seconda”. Ho bagnato i fiori, mi sono pettinata i capelli. Ho stanato due peli incarniti e lucidato i pomelli delle porte. E ancora, non trovo ragione che mi abbia spinto a  correre su un tacco 12 per consegnare in tempo una ricerca di mercato. Me ne frego. In sostanza, me ne frego. Io e il mio uomo ideale, che in quanto tale è rigorosamente immaginario, ci gusteremo questa ottima cena, godendo degli ultimi istanti di pace prima del settembre sperato e agognato.

Back to Bo.

Mi manchi, Prisca. Più tardi, con il favore delle tenebre, mi immedesimerò in Bukowski e navigherò ubriaca in sella ad una graziella color verde gazzilloro cercando di non prendere la direttissima per l’acqua del molo. In tuo onore.


: // ottominuti

Cara Svetlana,

la geografia ci divide. Mi restano sette minuti di batteria prima che tutto chiuda. Anche il bar. Ho una semplice verità da snocciolarti, in pubblica perché se la trattengo per noi, via cavo, non mi risuona abbastanza forte da accettarla.

Non guardiamoci alle spalle. Indietro, il grande flop. Le lettere da tatuare sull’indice destro sono cambiate. L’appuntamento resta per il settembre venturo. Festeggeremo così, con nuovi dogmi e nuove regole e una nuova città. Per un paio di mesi pensa solo al culo, come le escort di cui ammiriamo l’integrità. “Perché imparare il congiuntivo quando sono così brava ad aprire il culo?”

Nel mio caso, ho optato per il congiuntivo perché mi veniva meglio.

Si comincia sempre così, dichiarando i propri limiti.

Stammi bene


: // c’è più blogger che cristiani.

Scrivo, più o meno inconsapevolmente, per la stessa ragione per cui fumo 20 sigarette al giorno: 1% necessità, 99% vizio. Se non scrivo che faccio? Mi gratto? Lavoro? Guardo la tv? Faccio sport? Prospettive tutt’altro che auspicabili. Tra l’altro, mi gongolo nella convinzione che io lo faccia anche dignitosamente. Poi un giorno arriverà qualcuno che mi sputerà in un occhio sbandierandomi il contrario sul mio muso di ciuco. Ma fino a quel momento e, ne sono convintissima, anche dopo, continuerò a farlo. Gioia vuole che le numerose e brillanti evoluzioni tecnologiche mi consentano, oltretutto, di sfrittellare pubblicamente i maroni al prossimo con le mie baggianate. Sfrittellare, poi. Sembra che mettere due concetti in fila su una paginetta web sia diventato temibile fastidio. “Ci sono più blogger che cristiani”.

Se dio vuole. Dal mio afoso salotto in questo giorno di orrida estate, chiedo: è forse un problema? Fragorosi focchiu.


: // l’etimologia del pacco.

Carissimi,

certa di non esservi affatto mancata torno sgradevolmente nelle vostre vite in questo giorno di letizia. E lo faccio con un interessante quanto amabile pensierino che mi è nato qualche settimana fa. Scatole, imballi, scotch appicicato alle caviglie e fogli di quotidiano sparsi nella cameretta milanese, mi condussero a una riflessione più ampia rispetto al semplice trasferimento in atto (avrei forse mai potuto deludervi?). Apriamo dunque i nostri cervelli bacati all’etimologia del “pacco”. Giorni or sono una brillante mente del nostro secolo mi faceva prendere in considerazione un argomento importante: dice che “il novanta per cento delle donne è contraria al matrimonio perché ha realizzato che per 50 grammi di salsiccia non vale la pena comprare tutto il maiale” (cit. B.B.). Siamo arrivati al punto in cui un uomo ci è diventato solo 50 grammi di salsiccia? Almeno un etto, per la miseria. Ma, peso a parte, effettivamente la constatazione non è proprio pisciata fuori dal vaso.

Ora: io ho avuto la fortuna/sfortuna di infilarmi più volte sulla via dell’acquisto del pacco suddetto, vuoi per ottenere quella certezza di non rimanere sprovvista del prodotto, vuoi per il mio innato spirito di crocerossina che mi spinge ad affezionarmi a qualsiasi essere più o meno animato che mi respira di fianco. Però… però, però, però. Quale ne è stato, a conti fatti, il ricavato? La domanda mi perplime. Debbo ahimé ammettere che, una volta sulla via dell’acquisto dell’intero, quei 50 grammi mi sono diventati sempre meno attraenti. A prendere il “pacco completo”, infatti, non è che ci sia tutto questo sonante guadagno. Ed è a questo punto che un’altra brillante mente mi ha fatto compiere il passo successivo. Eccola lì la soluzione. L’evergreen per eccellenza. La botte piena e moglie ubriaca. Ciò a cui tutte in fondo aspiriamo.

Lui: il marito ricco e, soprattutto, vecchio. Preferibilmente senza prole e con una brevissima aspettativa di vita condita da problemi cardiaci.

E l’altro: l’idraulico. Prestante, atletico e rigorosamente manzo (vedi posizionamento XY pubblicato tempo fa).

Ne nascerebbe anche un bestseller: “come gli stappai il tappo” (cit.N.B). Vi lascio immaginare quale potrebbe essere la trama. Eccoci: io e la mia proverbiale finezza siamo tornate. Loro e la mia sensibilità marmorea… iuppidu.


: // lunedimattinaintreno

Frecciarossa Firenze-Milano 53 euro.

Se si considera lo spettacolo gratuito di scoppiettante retorica a cui si può assistere in ogni vagone sono pochi.

A: e tolga questo passeggino!

B: Lei si rivolge così alla signora solo perché è nera

A: No che non lo è, è solo molto olivastra

B: si vergogni, razzista

A: ma poi a lei cosa import

B: sono ebreo

A: e che cazzo c’entra?

B: c’entra sempre, fascista

A: senta, io sono un pendolare

B: ma io sono ebreo e la signora è nera

C: sì, io sono nera

B: e poi io sono un giornalista dell’Unità

A: io leggo Il Foglio

B: appunto, fascista

C: bianco!

D (io): scusate, mi attacchereste la presa che mi si scarica il mac?

A, B, C: signorina!!!

 

Chiaro, sono io il problema.

Stronzi.


: // concept #437 schizo-com

Durata 3/5 minuti

Inquadrature di arti. Cosce, caviglie, piedi nudi, unghie smaltate, tacchi alti, zoccoli, stivali e all stars. Borse della spesa con porri e bietole per dinamizzare. Lode alla verticalità. Valigie.  Mutande abbassate. Cappotti gettati a terra, in prossimità dell’uscio. E tazze del cesso. Lavatrici. Mani. Mai mezzi busti. Mai primi piani. Mai sguardi in macchina. Mai volti.

Voci fuori campo. Discorso diretto libero. Molto libero. Brainstorming e cazzate ad alta voce.

Joyce, tu es le bienvenu. Un café? on va l’écrire ensemble. Tu aime pas la télé? dommage.